Luigi Bonotto. Il "collezionista" di rapporti umani

Espoarte, Luglio 2019

AUDIOGUIDA

Intervista a Luigi Bonotto
A cura di Francesca Di Giorgio

Nel marzo scorso abbiamo avuto la fortuna di passare del tempo a Molvena (VI), a “Casa Bonotto”, accolti ed accompagnati da Luigi Bonotto – fondatore dell'azienda Bonotto Spa, oggi guidata dai suoi due figli Giovanni e Lorenzo – e Patrizio Peterlini, direttore della Fondazione Bonotto, istituita nel 2013 per conservare e mantenere viva una vasta collezione di opere e documenti Fluxus e di Poesia Sperimentale tra le più straordinarie e coerenti del Novecento. Un archivio che racconta moltissimo non solo di chi l'ha costituita ma anche di chi la vive ogni giorno all'interno degli spazi di lavoro dell'azienda, ormai perfettamente integrati con alcune delle sue opere più significative.
Come le trame dei tessuti prodotti dai telai di Bonotto, qui l'intreccio tra arte e impresa è talmente fitto da rendere invisibili i confini, dissolti fino a concepire gli “oggetti” come concetti e viceversa...

La sua passione per l'arte informale, dadaista, concettuale è nata dal suo contatto con un'altra azienda, dove suo padre l'aveva mandata a studiare tessitura. A Valdagno dai Marzotto, ha potuto conoscere gli artisti che ruotavano attorno al Premio promosso dall'azienda...

Luigi Bonotto: Molti sono gli incontri che ricordo bene, come se fossero avvenuti ieri! Su tutti è ancora vivido, nella mia memoria, lo sconvolgimento e il fascino procuratomi dall’opera Wrapped storefront di Christo, esposta a Valdagno nel 1965: un vecchio armadio della nonna a due ante il cui specchio era stato sostituito da un semplice telo bianco. Ci domandavamo: ma questa può essere arte?
Dopo molte domande e calorose discussioni con l’artista, divenne la mia opera preferita. Non dimenticherò quando, nel 1968, Alberto Burri ottenne il premio dell’ultima edizione Marzotto con i suoi “sacchi”, mandando quasi all’altro mondo il vecchio Marzotto quando si rese conto di aver sborsato milioni di lire per acquistare ciò che considerava dei semplici sacchi di juta, proprio come quelli che in fabbrica si era soliti buttare via ogni giorno. Per poco non gli prese un colpo.
Mi sembra ieri quando Michel Tapié, storico dell’arte informale, mi raccontava con molto entusiasmo che in Giappone dei giovani artisti di un certo “Gruppo Gutai” dipingevano le loro tele con il corpo e che le loro opere si potevano intendere come delle vere e proprie performances.
Anche Pierre Restany era ricco di spiegazioni sul Nouveau Réalisme, che in quel periodo stava lui stesso teorizzando…. E i miei orizzonti culturali si allargavano!

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